Io in mezzo ai cani ci sono nata, ma ciò non toglie che non ci capissi proprio una mazza all’inizio.
È chiaro che poi l’esperienza insegna, ma prima dell’esperienza e prima dello studio ero una ragazzina sperimentatrice, che cercava di trovare soluzioni proprie ai problemi dei suoi cani.
Quando al pomeriggio sei sola in casa, con un giardino di 5 ettari e il tuo cane, non c’è tv, Playstation o barbie che tenga, perlomeno se ti chiami Charlie.
A qualsiasi altra attività, avrei sempre preferito passare il mio tempo con Aki, ma se ripenso a ciò che facevo talvolta un po’ rabbrividisco.
Io non l’ho mai capito a dire il vero, e cosi crescendo ho iniziato a sperimentare come andare contro le credenze popolari, contro i detti.
Crescendo ho iniziato ancor di più a capire quanto non avessero senso, e quindi crescendo ho capito che non ci avrei mai più creduto.
Ma come avrei potuto educare il mio cane a 13 anni (akita americano per di più), senza l’aiuto delle credenze popolari? Semplice: inventavo.
Ma ti dirò la verità, inventando alla fine avevo più risultati che con le credenze, o con le idee umanizzanti che apportiamo a tutti gli esseri viventi.
Questo è l’errore più comune tra padroni di cani.
Quando il cane si spaventa rendono la scena ancora più pietosa, addolcendo la situazione con “non è successo niente”, “fai vedere cosa è successo”, e un fiume di ansia che si riversa su quel povero animale che vive nell’angoscia confermata dai padroni.
Questo lo facciamo perché crediamo che se in umana funziona cosi, allora è necessariamente uguale anche nel mondo dei cani.
Prima cosa che ti comunico: nemmeno in umana è esattamente cosi. Tu non lo sai, ma io soffro di svariati tipi di ansie e fobie, e il momento che odio di più è quando qualcuno mi dice “tutto ok?”, “ce la fai?”, perché nella mia testa parte un ragionamento infinito per cui, se qualcuno esterno riesce a percepire la mia ansia, significa che la sto effettivamente provando e che quella situazione è effettivamente potenzialmente difficile.
Non so se sia strana io, magari è il nome Charlie che mi spinge a ragionare come i cani, ma io la vivo cosi.
Seconda cosa che ti comunico: il fatto che tu faccia una cosa con un amico, non implica che tu debba farla col tuo cane. Perché altrimenti non vedo motivi per non uscirci una sera a bere qualcosa con un cane, o a raccontargli i nostri problemi amorosi.
Io vivo nelle fobie, nelle ansie e questo probabilmente mi aiuta a entrare in empatia con i cani con questi problemi.
Non ci sono protocolli nelle fobie, non si tratta di un esercizio da fare, si tratta di superare scogli uno per volta, piano piano. Si tratta di dire al cane che può farcela e che è un gran figo mentre supera le difficoltà.
Ma come fare?
Eheh.
Personalmente il primo lavoro che faccio è una sorta di team building, ovvero la costruzione del binomio, la creazione di una fiducia tale per cui al cane basta la consapevolezza del suo padrone per stare sereno.
Esci col tuo cane, fagli fare esperienze da vivere insieme, fidati di lui e non consolarlo se si spaventa, l’informazione che devi passargli è che lui è uno tosto, che può farcela.
Attenzione, attenzione, attenzione, non sto dicendo di non cagartelo di pezza (scusami il francesismo), altrimenti avrebbe anche ragione a pensare che non sei nessuno.
Quando affronta un momento difficile, il tuo compito è rendere quel momento il più normale possibile. Prendi un gioco che apprezza particolarmente e giocaci, fallo divertire.
Se non gioca, devi lavorare anche sulla motivazione nel gioco, devi renderlo uno strumento forte, all’inizio in ambienti conosciuti, poi piano piano gradualmente, all’esterno.
Il tuo compito fondamentale è non accarezzarlo in un modo di compassione. Giocaci tramite il sociale, dagli una pacca sul fianco, con la convinzione che gli stai dicendo “buttati, che puoi farcela”.
Spesso alle gare, vedo padroni che conoscono le difficoltà del proprio cane e per evitare che si presentino, li trattano come degli incapaci. Nel nostro sport ciò che conta è prendere il Frisbee e li vedi urlargli “bravoooo”, “va beneeee” anche quando non lo prendono, o quando ci corrono dietro con una motivazione pari a zero.
Io odio questi atteggiamenti: sei un cane, vai e prendimi sto frisbee, puoi farcela. È chiaro che comunque devo aiutarlo, ma non è rendendolo un completo inetto che si risolvono i problemi.
In gara, come nella vita.
Ci sono milioni di esercizi da fare. Quando vengono da me al campo, facciamo un sacco di attività, ma non sono quelli e basta che cambiano il cane.
A cambiare il cane è per un 50% anche il modo in cui lo guardiamo, la fiducia che impariamo a riporre in lui.